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lunedì 13 maggio 2024

I DUE VOLTI DEL GATTOPARDO

Il ritratto di Giulio Fabrizio Maria Tomasi,
il bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Foto pubblicata dal settimanale "Tempo"
del 29 marzo 1960


"La trasfigurazione letteraria realizzata nel romanzo dal pronipote scrittore ci ha offerto una figura vigorosa, avallata o ispirata dal quadro di famiglia raffigurante ( non senza compiacenza del pittore ) un Gattopardo piuttosto giovane, gagliardo. L'immagine del dipinto ha fatto il giro della stampa nazionale ed estera, creando un cliché mentale, attraverso il quale emerge, solenne, una sagoma quasi prussiana, sia nei tratti somatici, sia attraverso le interpretazioni fisiognomiche. Ma tanto la figura letteraria, quanto il compiacente dipinto, contrastano apertamente con i nostri dati storici e non i ricordi dei racconti familiari, ancora vivi nel cuore di alcuni pronipoti. In realtà, il Gattopardo - come sappiamo da questi ultimi - era molto buono, religiosissimo, senza scatti e senza rampate: non sembrano ricordi inconsciamente alterati da una logica affettiva, incline a rilevare e a tramandare i lati positivi di un antenato, tra l'altro ormai famoso; sono ricordi che a noi sembrano chiaramente e diversamente suffragati..." 

Così Andrea Vitello nel saggio "I Gattopardi di Donnafugata" ( S.F. Flaccovio Editore Palermo, 1963 ) sottolineò l'equivoco generato a partire dal novembre del 1958 sulla energica personalità e sui lucidi ragionamenti del  personaggio letterario di don Fabrizio Corbera Principe di Salina, protagonista del romanzo "Il Gattopardo": una figura interpretata nel successivo film di Luchino Visconti da Burt Lancaster ed ispirata in origine dalla figura storica del bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,  Giulio Fabrizio Maria Tomasi

La fotografia dello stesso bisnonno
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
pubblicata nel 1963 nel saggio di Andrea Vitello,
opera citata nel post


Alle errate opinioni sul suo carattere contribuì appunto la diffusione della fotografia di un quadro di famiglia raffigurante il bisnonno dell'autore de "Il Gattopardo": un ritratto divulgato da quotidiani e riviste che dedicarono all'epoca numerosi articoli al romanzo ed al film di Visconti. Ottavo principe di Lampedusa e nono duca di Palma, l'avo dello scrittore era nato nel 1815. Coltivò davvero l'hobby dell'astronomia - Andrea Vitello ricordò che possedeva a Palermo due specole, una in una casina di via Villafranca, l'altra nella villa Lampedusa a San Lorenzo - oltre a quelli dei giochi di prestigio, del biliardo e delle recite teatrali a carattere dilettantesco: passioni che spinsero Vitello a concludere così il ritratto del "reale" Gattopardo, fornendone nel suo saggio anche una fotografia di famiglia:

"Chi avrebbe riconosciuto il felino, così spesso austero, del romanzo, candidamente intento ad esibirsi attraverso scherzi così innocenti?"

giovedì 9 maggio 2024

FAMA, VICISSITUDINI E SALVAGUARDIA DELL'ASINO PANTESCO

Fotografie
Ernesto Oliva-ReportageSicilia


"Anche l'asino di Pantelleria, più perfetto ed elegante, interessa; e sempre quell'isola è stata celebre per i suoi asini... Ma Pantelleria ha disgraziatamente troppi pochi asini. Non arrivano al migliaio"

Così nel 1934 il giornalista agrario Arturo Marescalchi lamentava l'esiguo numero di asini panteschi presenti nell'isola: una popolazione che nei decenni successivi si sarebbe drasticamente ridotta, causa gli incroci con altre razze e le migrazioni dell'animale dalla Sicilia. Nel 1982 - un anno dopo che il rischio della loro estinzione era addirittura approdato alla trasmissione della Rai "Portobello" - ne erano sopravvissuti 16 esemplari, 12 maschi e 4 femmine. Nel 1985, la sorte dell'asino pantesco parve segnata da uno sfortunato incidente: l'ultimo esemplare maschio - denominato "Arlecchino" - morì annegato nelle acque del porto di Pantelleria per la rottura del cavo di sollevamento utilizzato per lo sbarco nell'isola allo scopo di fargli fecondare l'ultima asina in vita. 



Negli anni successivi, l'Azienda Foreste Demaniali della Regione Sicilia avviò un progetto per il recupero dell'asino pantesco all'interno del demanio forestale di S.Matteo, ad Erice. Grazie a lunghe ricerche anche genetiche su circa 200 esemplari, furono prescelti tre maschi e sei femmine con una percentuale di razza pantesca variabile fra l'80 ed il 95 per cento. 



Nel 1994 si registrarono le prime nascite che sino ai nostri giorni hanno permesso di recuperare gli standard originali vantati dall'asino pantesco, citato per le sue doti anche nel racconto di Luigi Capuana "L'Abate Castagna e l'asino cattivo".

"Assai ricercato per la eccezionale capacità di produzione di ibridi longevi e robustissimi, l'asino di Pantelleria - si legge in "Allevamento degli asini di Pantelleria" edito nel 2002 dalla Regione Siciliana e dall'Azienda Foreste Demaniali di Trapani - era altresì apprezzato per la sicurezza del passo e per la velocità di marcia  ( anche 25 km/h su percorso piano e 15 km/h a tiro leggero ) e veniva preferito di gran lunga al cavallo come cavalcatura comoda e rapida su tutti i terreni. Tra i pregi di questi asini non è certo da trascurare quello di essere stata fra le razze che hanno contribuito alla costituzione della razza ragusana..."

mercoledì 1 maggio 2024

LA SICILIA SENZA POPOLO DI VIRGILIO TITONE

"Pupi" siciliani
all'interno del Museo Internazionale delle Marionette
"Antonio Pasqualino" di Palermo.
Fotografia Ernesto Oliva-ReportageSicilia


Fra i grandi scrittori siciliani del Novecento - da Tomasi di Lampedusa a Sciascia, da Bufalino a Consolo - è stato argomento comune sottolineare i differenti volti della Sicilia, isola nei millenni abitata da popoli diversi: una condizione storica che giustifica il quasi esclusivo contesto letterario siciliano di questi scrittori, impegnati in una inesauribile analisi e in un'impossibile sintesi di quella storia ( "Non so se altri luoghi in pari misura, ma la Sicilia - causa ne sia un eccesso o un difetto di identità - non fa che investigarsi e discorrere permalosamente di sé...", ha scritto Gesualdo Bufalino ). Il tema dell'identità siciliana ha impegnato anche gli storici, fornendo loro una più articolata chiave di lettura sui mali dell'isola. Ne è un esempio quella fornita da Virgilio Titone in "Storia mafia costume in Sicilia", edito nel 1964 a Milano da Edizioni del Milione. Le conclusioni di Titone costituiscono un giudizio netto sulla impossibilità di assegnare ai siciliani la qualifica di "popolo": 

"L'isola non è mai stata soggetto della sua storia. Dopo i siculi e i sicani, che le testimonianze ci dicono emigrati in Sicilia, ma potremmo in certo modo considerare indigeni, abbiamo i fenici e i greci, poi, dal 210 avanti Cristo, i romani. Sopravvengono quindi le invasioni barbariche con i vandali nel 440 e gli ostrogoti nel 490. La dominazione bizantina va dal 535 al IX secolo, quando ha inizio quella degli arabi. Dal 1070 incomincia il periodo normanno, cui succederanno gli svevi, gli angioini, gli aragonesi, il periodo castigliano, che va Ferdinando il Giusto a Ferdinando il Cattolico, quindi quello degli Asburgo di Spagna, da Carlo V a Carlo II ( 1516-1700 ). Durante la guerra di successione di Spagna si ha un prolungamento della dominazione spagnola con Filippo V di Borbone. Seguono i Savoia dal 1713 al 1718 e gli austriaci sino al 1734. Da quella data al 1860 si hanno i borboni, cui succede, con la conquista garibaldina e piemontese, il regno d'Italia. Alcuni di questi popoli hanno portato con sé una ondata di colonizzatori: la dominazione politica si è, cioè, accompagnata con lo stanziamento di nuove popolazioni più o meno numerose... Un altro ordine di fatti deve essere tenuto presente: la grande mobilità della popolazione siciliana e il rimescolio continuo di genti diverse all'interno dell'isola, che è continuato fino ai nostri giorni. Il che ha reso più difficile la formazione di uno stabile ordine sociale, di una tradizione locale, di una classe dirigente o, almeno, se il termine può sembrare eccessivo, di una classe che abbia goduto del prestigio e dell'autorità dei borghesi di altre regioni d'Italia... La storia dell'isola non è dunque quella di un popolo, ma di alcuni popoli, avversi tra loro e ostili: anzi, se si fa eccezione per le colonie greche prima della conquista romana e per qualcuna delle non greche, e nell'età moderna per Messina e qualche comune lombardo, come Caltagirone, potrebbe dirsi piuttosto che la storia di bande, tribù, clientele, ecc., cui non sarebbe facile dare il nome di popolo..." 

domenica 21 aprile 2024

IL RICORDO DEL LUTTO TROIANO DELLE DONNE DI ERICE

Anziana donna di Erice.
Autore ed opera citati nel post


"Inutilmente lei cercherebbe qui i costumi sgargianti della Sicilia: la donna di Erice porta un particolare manto tradizionale di seta nera molto avvolgente in cui s'avvolge con una tecnica tutta sua; l'indumento è antichissimo, non ne conosciamo l'origine"

Così, nel maggio del 1969, il direttore della biblioteca di Erice, composta all'epoca da 11.000 volumi, 600 manoscritti del XVI secolo e 10 incunaboli, illustrò al giornalista Silvano Villani l'abbigliamento allora indossato da molte donne ericine. 



Villani cercò una spiegazione a questa tradizione - oggi quasi del tutto scomparsa - richiamando alla memoria le sue conoscenze sulla poesia alessandrina del IV secolo avanti Cristo:

"Racconta un antico scrittore, Licofrone, ( citato dal Bérard nel suo libro "La Magna Grecia" ) che le donne di Erice e Segesta mai più smisero il lutto per la caduta di Troia: potrebbe il manto ricordare quell'antica catastrofe?"


( La fotografia del post è di Giuseppe Alario ed è tratta dall'opera "Fotografie del 1963" edita da Ezio Croci Editore, Milano )

giovedì 18 aprile 2024

IL CORTEO DEGLI OPERAI DUCROT PRIMA DEL FALLIMENTO DEL MOBILIFICIO

Operai della Ducrot
in corteo negli ultimi mesi
di vita della storica ditta palermitana.
L'altra fotografia ritrae l'esterno della fabbrica.
Entrambe le immagini
sono tratte dall'opera citata nel post


Tra la fine del 1969 ed i primi mesi del 1970 si stava per chiudere a Palermo  l'epopea industriale della fabbrica di mobili ed arredi lignei Ducrot, fondata dall'imprenditore torinese Carlo Golia alla fine dell'Ottocento e divenuta celebre grazie al figliastro Vittorio Ducrot. Quest'ultimo, nato nel 1867, era figlio di un ingegnere ferroviario francese morto a Palermo durante l'epidemia di colera del 1866. Nel 1903, quando l'azienda aveva il nome di "Ducrot, Palermo, Successore di Golia & C e di Solei Hebert & C.", la fabbrica nei pressi del palazzo normanno della Zisa impiegava almeno 200 operai.

"Già nel 1907 - si legge nel saggio di Daniela Pirrone e Maria Antonietta Spadaro "Archeologia Industriale", Kalos Edizioni d'Arte, Palermo, 2015 ) - la ditta era registrata alla Borsa di Milano. Sono di questo periodo le produzioni per gli arredi di Montecitorio, delle navi della flotta dei Florio e delle famose architetture di Ernesto Basile. I più grandi palazzi di Palermo e di tutta la Sicilia, le case dei nobili, ma anche quelle borghesi, vennero arredati con mobili della ditta, responsabile anche degli arredi di Villa Igiea. Nel 1913 i 1.000 operai lavoravano in uno stabilimento che aveva l'estensione di 20.000 mq., ma destinato a crescere ancora..."



Nel 1907, Vittorio Ducrot aveva trasferito la sede legale della ditta a Milano. Nel capoluogo lombardo venne aperto un negozio, altri due a Roma e Napoli. Durante il primo conflitto mondiale, la Ducrot curò la produzione di idrovolanti: una riconversione che anticipò l'inizio di una crisi aziendale scongiurata nel 1931 dalla commessa per la fornitura degli arredamenti dei transatlantici "Rex" e "Roma". All'epoca il numero degli operai era sceso a poco più di 350; i macchinari per la lavorazione del legno necessitavano ormai di un rinnovamento e le sorti della fabbrica sembravano essere segnate. Un ultimo sussulto produttivo si ebbe nel 1935, quando il regime fascista favorì la costituzione di una nuova società per la costruzione di aerei, la "Caproni-Ducrot-Costruzioni Aeronautiche", da affiancare alle attività del mobilificio. Alla vigilia del secondo conflitto mondiale, la Ducrot passò nelle mani di una azienda genovese, che la mantenne sino al 1968, ultimo anno di attività della fabbrica. Le fotografie riproposte da ReportageSicilia furono pubblicate nel febbraio del 1970 dalla rivista "Il Mediterraneo", edita dalla Camera di Commercio di Palermo. Documentano gli ultimi mesi di agonia della ditta, allorché gli operai manifestarono più volte in strada a Palermo nel tentativo di salvare la propria occupazione.






I loro cortei furono accompagnati dall'occupazione dello stabilimento e dalla produzione autonoma di mobilio, iniziativa quest'ultima motivo di duro scontro con la proprietà. Malgrado questa mobilitazione, la richiesta di potere lavorare per conto della SAMSI - una ditta palermitana di arredi scolastici del gruppo E.S.P.I. ( l'Ente Siciliano per la Promozione Industriale liquidato nel 2023, dopo 24 anni di attesa ) - rimase lettera morta. Nel 1971, il fallimento pose così fine per sempre alla gloriosa storia d'inizio Novecento della fabbrica Ducrot

 

lunedì 15 aprile 2024

PREGHIERE ED INSULTI DEI MIETITORI IN UNA PAGINA DI ANTONINO UCCELLO

Fotografie di Giuseppe Leone.
Opera citata nel post


Il 27 settembre del 1971, l'etnologo Antonino Uccello aprì al pubblico la sua Casa Museo a Palazzolo Acreide. Dieci anni prima, Uccello era tornato nella cittadina siracusana dalla Brianza, acquistando una parte dello storico Palazzo Ferla per conservarvi cucchiai di legno, chiavi di carretto, ex voto, sculture in ferro ed altri oggetti di uso quotidiano nella civiltà contadina recuperati nella zona iblea. La Casa Museo - "un vecchio e ampio edificio che costava poco, perché in una delle sue stanze avevano ammazzato il proprietario e nessuno ci voleva abitare", ha ricordato Stefano Malatesta in "Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani" ( Neri Pozza Editore, Vicenza, 2000 ) - è, sempre secondo Malatesta, la testimonianza della passione di un "antropologo autodidatta, che ha vissuto l'antropologia come un fenomeno poetico e civile". Antonino Uccello fu anche autore di numerosi saggi, scritti senza una forma letteraria e pubblicati dopo un'opera di revisione affidata ad un professore catanese. 



Nel 1976, diede così alle stampe "Amore e matrimonio nella vita del popolo siciliano", nel 1978 "Tessitura popolare in Sicilia". Fra le due opere, ebbe modo di pubblicare nel dicembre del 1977 sulle pagine della rivista "Sicilia" edita a Palermo da S.F. Flaccovio un breve saggio intitolato "I canti della mietitura". 



Lo scritto - accompagnato dalle fotografie di Giuseppe Leone riproposte nel post - conteneva il testo di una preghiera recitata dai mietitori che costituiva anche una denuncia ed un'ironica riflessione sulle loro dure condizioni di lavoro:

"Maronna, quant'è gghiàtu stu suli, facìlitu presto stramuntari! Nun lu faciti, no, pi li patruna, facìlitu pi li puviri iurnatari ca iavi gniuornu ca sunu abbuccuni, ca a catinazza sa mànciunu i cani"

( "Madonna, com'è alto questo sole, fatelo presto tramontare! Non lo fate, no, per i padroni, fatelo per i poveri braccianti, che da un giorno se ne stanno bocconi e la schienaccia se la mangiano i cani" )

Quindi Antonino Uccello descriveva così consuetudini e singolari abitudini di questi lavoratori oggi scomparsi dal paesaggio agricolo siciliano: 

"Prima di iniziare i lavori, i mietitori, all'alba, sogliono, mangiare una fetta di limone e sorseggiare del vino che aspirano dal piccolo barile, passandoselo in giro da un compagno all'altro. I mietitori, come al tempo del Pitrè, sogliono portare in genere sulla camicia un grembiule di cotone o di cuoio, sul braccio destro, infilano una manica di stoffa piuttosto resistente per proteggersi dalle reste, dalle spine o altro, riparano le dita della mano sinistra, con la quale raccolgono il frumento mietuto, con ditali di canna, mentre lasciano libero il pollice, che in molte campagne viene invece protetto con un ditale di cuoio. 



I mietitori si dispongono sul posto di lavoro, che viene detto "antu", uno accanto all'altro, dinanzi al proprio filare di frumento da mietere; a fianco del "capo" si dispongono tutti gli altri mietitori, e per ultimo il "capocoda", che chiude la fila.

Nella Sicilia orientale in particolare il mietitore aveva in passato la facoltà d'inveire contro chiunque, gridare ciò che voleva contro gli eventuali passanti che riuscivano a sedare le invettive scoprendosi il capo. Un padre cappuccino, per la campagna di Palazzolo Acreide, per il secolo XIX, ci offre la seguente testimonianza:

"I mietitori fanno un baccano quando passa vicino a loro qualche personaggio, e gli dicono cose, che in altri tempi non si soffrirebbero. Quest'uso credo d'essere in moltissime parti"



E, infatti, esso ci viene confermato anche dal Guastella per la Contea di Modica, e dall'Avolio per la campagna di Noto, e ci richiama, come si può leggere nel X Idillio di Teocrito, un'usanza frigia secondo la quale coloro che si trovassero a passare per il campo da mietere, specie se stranieri, venivano considerati incarnazioni dello spirito del grano e sacrificati per propiziare la pioggia..."