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lunedì 5 dicembre 2016

L'OBLIO DEL PITTORE "NAIF" DEI NEBRODI


Ritratto umano ed artistico di Antonio Mancuso Fuoco, il pastore-artista di Capizzi raccontato nel 1979 da Maria Consoli Sardo


Antonio Mancuso Fuoco
in una fotografia di Maria Consoli Sardo.
L'immagine illustrò un suo servizio
dedicato al pittore di Capizzi e
pubblicato dalla rivista "Sicilia" nel dicembre del 1979 


Per qualche lustro - fra gli anni Sessanta e gli inizi degli Ottanta - la pittura "naif" ha accarezzato con immagini elegiache e riposanti il gusto del pubblico, evocando mondi fiabeschi ed ispirati al folclore locale.
 Oggi, il ricordo dei pittori "naif" sopravvive a fatica, anche per colpa di quella parte di critica che ha relegato la loro produzione ad una forma di artigianato basata sulla nostalgica copiatura di più "nobili" modelli artistici.
Così, pochi ricordano il nome ed i quadri dipinti da Antonio Mancuso Fuoco, il "pittore mandriano" - così lo definì Maria Consoli Sardo nel dicembre del 1979 nella rivista "Sicilia" - cresciuto fra le montagne ed i pascoli messinesi dei Nebrodi.
Nato nel 1921 a Capizzi, Mancuso Fuoco emigrò presto in Germania, trasferendosi poi a Torino e qui approfondendo la passione per la pittura e la nostalgia per i paesaggi ed i colori dei Nebrodi
Tornato a Capizzi nel giugno del 1971, il "pittore mandriano" conobbe una notorietà artistica grazie ad una scheda dedicatagli nel febbraio del 1973 dal catalogo "Bolaffi arte moderna".


Antonino Mancuso Fuoco, "Lavorazione della ricotta"
In quel periodo, le sue opere furono ospitate in varie gallerie europee ( Roma, MilanoVarsavia, Cracovia, Vienna, Parigi ).
Proprio a Capizzi morì il 30 giugno 1996, dopo una malattia che negli ultimi anni ne limitò la produzione artistica.
Una delle ultime rassegne dedicate al più importante fra i pittori "naif" siciliani è stata ospitata nell'estate del 2014 a Mistretta, all'interno del Museo Pastorale "G.Cocchiara".
L'iniziativa ha rappresentato nella storia recente un tributo quasi isolato al ricordo di Antonino Mancuso Fuoco, il cui ritratto di uomo e di artista venne così raccontato 37 anni fa  dalla Consoli Sardo:  


"Accostarsi alla pittura di Antonino Mancuso Fuoco, è come immergersi in quella natura a contatto con la quale egli vive ogni giorno, in un paese di montagna, fermo nella corsa dei secoli: Capizzi.
Il suo è un realismo semplice, che non lascia spazio alle emozioni ed alla fantasia, neanche nella scelta dei colori che compone e prepara da sé.
La sua terra, la sua gente, le sue montagne, ora ammantate di neve, ora accese di verde, per la tanto attesa primavera, sono impresse a tinte forti, nelle sue tele.
In esse egli trasferisce la serietà e il rigore della gente semplice, con la rappresentazione della vita quotidiana, negli aspetti più immediati, aspetti che coglie con verismo descrittivo ed emblematico.
Ferma è vero, immagini poetiche, ma imprimendovi un realismo schietto che li fa autentici.


Antonino Mancuso Fuoco, "Il pecoraro"
L'arte naif è diventata una moda, ma quando Antonio Mancuso Fuoco incominciò ad esprimersi con i pennelli o intagliando il legno con un coltello, era ben lontano da ritenersi un artista.
Oggi famoso, si stupisce ancora che ci si accorga di lui.
Il padre, scalpellino rigido e duro come la pietra che sgrossava, non poteva tollerare che il ragazzo decenne, rubasse di tasca ai fratelli ogni tanto mezza lira o quattro soldi, per i suoi innocenti capricci.
La punizione fu mandarlo in campagna a custodire gli animali.
E fu questa punizione a trasformare inconsciamente un giovanissimo mandriano in un artista.
Nel silenzio e nella solitudine, nel contatto diretto con la natura, un coltello ed i legni dei boschi erano quanto gli consentiva di esprimersi.
Dalle giovani mani, uscivano i gioghi intarsiati per i buoi, canestri, cucchiai di legno con i manici istoriati, 'a straula' ( il carro agricolo ), gli aratri, le pertiche.
Così anche nella lavorazione dei formaggi: le 'provole' di caciocavallo, diventavano cavallini, 'palummeddi', perfino 'a vara di S.Giacomo ( il carro di S.Giacomo, protettore del paese ).


Antonino Mancuso Fuoco, "I pastori lasciano le montagne"
Più tardi, intravedendo in questa abilità del figlio un'attitudine all'arte del falegname, Antonino Mancuso Fuoco fu mandato dal padre a far pratica da un 'mastro d'ascia'.
Uno 'zucco' ( un tronco ) di pero divenne nelle sue mani un 'Ecce Homo'.
Dopo averlo scolpito e dipinto, Antonino Mancuso aveva grandi dubbi sulla buona riuscita del suo lavoro e, non avendo alcun interlocutore che potesse dargli un giudizio, con grande semplicità, trasse da sé le conclusioni: 'se nel tragitto per portarlo in chiesa la gente lo saluterà, significa che è fatto bene, altrimenti, pero era e pero resta'.
Mentre percorreva via dei Vespri, la gente di Capizzi non si limitava a guardare la scultura lignea, ma gli uomini si toglievano il berretto al passaggio, e le donne si chinavano per baciare il Cristo morto.
Era riuscito bene!
Emigrato a Torino in cerca di lavoro, lo trovò facendo la guardia notturna e dipingendo di giorno gli ostacoli dell'ippodromo.
Nel contatto col colore, trovò subito un altro mezzo per esprimersi e sentirsi partecipe e motivato.


Antonino Mancuso Fuoco, "Natale senza luce"
Nella malinconia struggente, che gli veniva dal ricordo della sua terra lontana, terra che amava ma che allo stesso tempo odiava perché lo costringeva a starne lontano, diede vita con forza, sulla tela, a quei ricordi che diventavano realtà: era la conta del gregge all'uscita dall'ovile; erano i cavalli che cercavano su un albero spoglio qualcosa da mangiare, unici protagonisti in un paesaggio unicamente di neve; era il rientro a casa dei contadini dopo la tempesta; era la partenza dei mandriani per la transumanza.
Scoprì che non gli era difficile trasferire in un quadro e far rivivere, quella sofferenza, senza subire influenze, senza cedere a tentazioni di evasioni, né di colore, né di contenuto.
La sua interpretazione pittorica, rimase limpida, la sua composizione chiara, il suo tratto deciso, la sua arte viva, autentica e nello stesso tempo sofferta in un mondo struggentemente consapevole della verità immutabile dell'uomo partecipe della natura.
Costretto a tornare a Capizzi per la sua salute, continua a dipingere senza che la sua arte ingenua risenta del risentimento nel mercato dell'arte.
Le sue espressioni pittoriche, sono rimaste genuine e oneste, come genuino e onesto è l'uomo vissuto nella sofferenza"




   

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