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domenica 30 settembre 2012

L'ABBANDONO DELL'EDILIZIA FERROVIARIA FRA PALERMO E MESSINA

La casa cantoniera ferroviaria di Finale di Pollina,
lungo la linea fra Palermo e Messina,
a pochi metri dalle acque del Tirreno.
E' una delle tante testimonianze edilizie a perdere di architettura di servizio al trasporto su treno lungo la costa Nord della Sicilia.
Foto ReportageSicilia
Punteggiano la costa fra Palermo e Messina, in posizioni che spesso lambiscono tratti di azzurre acque del Tirreno.
Le loro strutture – da anni in stato di totale abbandono e rovina – riescono a suscitare ancora l’impressione di quella armonia costruttiva sorta agli inizi del secolo scorso grazie ad una perfetta compenetrazione fra opera dell’uomo ed ambiente naturale.
Le stazioni e le case cantoniere in disuso disseminate lungo la linea ferrata che corre non lontano dalla strada statale 113 sono però diventate da tempo un esempio di architettura ferroviaria a perdere.
Una panoramica della casa cantoniera ferroviaria di Finale di Pollina che inquadra il contesto paesaggistico
in cui vanno oggi in rovina queste strutture.
Il loro recupero edilizio potrebbe avere finalità di tipo culturale o ricreativo, legato ad un territorio dispiegato su un tratto di costa lungo oltre 200 chilometri.
Foto ReportageSicilia
I primi esempi di edilizia di servizio alla linea ferrata Palermo-Messina nacquero nel 1863, con il collegamento fra il capoluogo isolano e Bagheria.
Soltanto nel 1895 – dopo avere superato numerose difficoltà tecniche, legate alle asperità naturali presenti lungo il percorso – la linea a binario unico venne definitivamente ultimata.

L'interno della casa cantoniera di Finale di Pollina.
Il piano terra di questi edifici erano destinato ad un uso di servizio, quello superiore accoglieva invece
gli ambienti domestici utilizzati da casellanti
ed addetti alla manutenzione della linea ferrata.
Foto ReportageSicilia 
Le piccole stazioni e case cantoniere presenti lungo i 224 chilometri della strada ferrata scandivano con i loro tetti spioventi il paesaggio costiero, fra il mare e le colline che subito dopo lo scalo di Cefalù offrivano squarci di ricca macchia mediterranea: un viaggio in treno fra Palermo e Messina costituiva allora anche l’occasione di ammirare un paesaggio di straordinaria e non del tutto perduta bellezza paesaggistica.
I panorami offerti dai finestrini di un vagone in viaggio sulla costa del Tirreno furono così descritti dal giornalista e scrittore svizzero Daniel Simon.

Altro esempio di casa cantoniera in stato di abbandono
lungo la linea ferrata tra Palermo e Messina.
L'edificio - sulle cui coperture sono evidenti i segni di un incendio - si trova fra la stazione di Castelbuono
e la spiaggia di Santa Maria, nel territorio di Sant'Ambrogio.
Foto ReportageSicilia 
“Questo versante Nord dell’isola, che rappresenta la più gran parte di quella regione denominata Val Demone – scrisse nel 1956 nel volume ‘Sicilia’, edito da Salvatore Sciascia - è costantemente dominato dalla montagna che ora s’avvicina ora s’allontana dal mare, proiettando qua e la promontori e dirupi, aprendo golfi orlati da pigre spiagge, sciorinando fertili pianure alluvionali dove crescono magnifiche piantagioni d’olivi, di mandorli e d’agrumi”.

L'ampio spazio esterno della casa cantoniera ferroviaria nei pressi
della stazione di Castelbuono,
con l'inconfondibile sfondo della rocca di Cefalù.
Questi edifici ospitavano le famiglie di casellanti ed addetti alla manutenzione, offrendo loro un piccolo terreno per la coltivazione agricola, un forno ed altre strutture di servizio.
Foto ReportageSicilia  
 L’affermarsi del traffico su gomma – con l’entrata in funzione dell’autostrada A20 – l’automazione delle procedure di servizio ed il progressivo smantellamento degli investimenti delle Ferrovie dello Stato hanno decretato la dismissione della quasi totalità di questi edifici.
La maggior parte versano in condizioni statiche precarie, ma altri resistono senza danni irreparabili all’azione delle intemperie e dei vandalismi.

Un dettaglio della casa cantoniera con il cartello delle Ferrovie dello Stato che ne vieta l'accesso all'interno.
Simili ammonimenti non servono a salvare dall'abbandono
queste storiche costruzioni.
Foto ReportageSicilia
La visita di queste costruzioni – ubicate nei pressi di ponti, passaggi a livello e diramazioni stradali - suggerisce ancora oggi la loro funzione insieme tecnica ed abitativa. La prima veniva svolta dal casellante o dall’addetto alla manutenzione della linea ferrata al piano terra; quello superiore era adibito ai bisogni domestici di un nucleo familiare.

Il recupero di questi edifici, in molti casi, non è sempre impossibile.
Il loro ripristino fornirebbe un piccolo contributo alla salvaguardia della cultura paesaggistica delle province di Palermo e Messina, salvando un patrimonio edilizio perfettamente inserito
nel contesto ambientale della zona.
Foto ReportageSicilia 
 La funzione residenziale delle case cantoniere era quindi completata dalla presenza di uno scantinato, di un piccolo appezzamento di terreno e di un forno esterno.
Non è forse esagerato affermare che per decenni queste strutture furono anche un punto di riferimento per molti abitanti di frazioni e piccoli paesi sparsi lungo la costa fra Palermo e Messina; case cantoniere e piccole stazioni rappresentavano un microcosmo di aggregazione sociale incentrato intorno alla figura del casellante e del suo nucleo familiare.
La fotografia di Josip Ciganovic che ritrae un gruppo di bambini nel cortile interno della stazione di Gioiosa Marea, fra il bucato steso al sole, è una testimonianza della vita quotidiana che si svolgeva in questi edifici.

Una casa cantoniera lungo la linea ferrata nei pressi di Tusa.
In questo caso, la copertura ha ceduto del tutto all'azione del degrado.
Le mura, invece, resistono ancora allo sfaldamento. Per quanti anni ancora?
Foto ReportageSicilia 
Nel post, ReportageSicilia mostra lo stato attuale di tre di case cantoniere ferroviarie in disuso lungo la linea ferrata che fiancheggia la strada statale 113, fra la frazione di Sant’Ambrogio-Cefalù, Finale di Pollina e Tusa.
La proprietà di questi manufatti è oggi del Demanio o delle Ferrovie dello Stato.
E’ chiaro che il recupero di questi suggestivi esempi di edilizia potrebbe essere favorito da una riconversione di tipo culturale o ricreativa, legata strettamente al territorio.
Le ristrettezze economiche dei nostri tempi – specie quelle delle casse dei piccoli Comuni – non facilitano certo l’elaborazione di validi progetti.
Il degrado di queste semplici case cantoniere ferroviarie rischia così di diventare l’ennesimo caso di perdita di identità culturale del territorio siciliano.

Una casa cantoniera a Gioiosa Marea in uno scatto di Josip Ciganovic,
realizzato probabilmente alla fine degli anni Cinquanta. 
Con i suoi bambini che giocano fra i panni stesi, l'immagine restituisce un momento di vita quotidiana all'interno di queste strutture create per la gestione del traffico ferroviario lungo la linea Palermo-Messina.
La fotografia è tratta dal I volume dell'opera 'Sicilia'
edita nel 1962 da Sansoni





mercoledì 12 settembre 2012

ACATE, RICORDI E ROVINA DI UN LAVATOIO


I resti del lavatoio di contrada Canale, nelle campagne ragusane di Acate.
Costruito nel 1911, venne utilizzato sino agli Sessanta dalle lavandaie della zona. Qui si ritrovavano anche i pastori, i ragazzi e le donne del paese: al di là delle sue funzioni di servizio, il lavatoio ha rappresentato
uno dei luoghi di aggregazione della comunità locale.
Le fotografie del manufatto riproposte da ReportageSicilia
sono tratte dal sito www.i4canti.it

Ci sono luoghi che raccontano pezzi ormai dimenticati di vita quotidiana ancora legati a quella cultura contadina che in Sicilia è sopravvissuta sino a qualche decennio fa all’affermarsi dei modelli imposti dalla realtà urbana.
Uno di questi luoghi è “u Canali” di Acate, la cittadina in provincia di Ragusa al centro di un territorio un tempo coltivato per lo più a vigne, ulivi ed agrumi e più recentemente ricoperto da decine di serre.
“U Canali” è la storica denominazione locale di un lavatoio costruito nel 1911 nella zona di contrada Canale, su progetto del perito agronomo di Niscemi Rosario Cavalieri Iacono. Ciò che resta della struttura testimonia ancora un tipico esempio di edilizia idraulica di servizio per la popolazione locale; il lavatoio era infatti utilizzato dalle donne della zona per lavare i propri panni, oppure per pulire – a pagamento - quelli di altre famiglie.
 
Cespugli spinosi e degrado strutturale affliggono da tempo il lavatoio di Acate.
I lavelli sono da decenni a secco, mentre sono del tutto scomparsi
i rubinetti in ottone
dai quali fuoriscivano i venti rivoli di acqua

L’opera, costruita in pietra da taglio, cemento e con rubinetteria in ottone, come ricorda Gaetano Masaracchio, “era costituita da venti vaschette di lavaggio poste in due filari, fra i quali si trovavano la canaletta che ripartiva l’acqua per la lavatura della biancheria e quella che raccoglieva le acque di lavaggio”.
Lo stesso Masaracchio aggiunge che “l’intero lavatoio” – dagli anni Sessanta ai nostri giorni dapprima abbandonato e poi andato in rovina – “era coperto da una tettoia, al fine di salvaguardarne le lavandaie dal sole e dalle intemperie”. La struttura del lavatoio di Acate era la testimonianza della ricchezza dei materiali da costruzione di una serie di paesi e città del circondario: la calce comune da Vittoria, quella idraulica da Caltagirone, la pietra da taglio da Ragusa.
 
Un eloquente immagine dello stato di abbandono del lavatoio di Acate.
Nel gennaio scorso, il Comune ha simbolicamente affidato il monumento
ai ragazzi del locale
Istituto Comprensivo "Alessandro Volta"
Ciò che oggi resta del lavatoio – un tempo luogo di lavoro ma anche di socializzazione per donne, pastori e bambini di Acate – è l’ennesima testimonianza del degrado di tanti poco conosciuti beni culturali della Sicilia: manufatti che magari non compaiono nelle guide turistiche e nei libri di storia dell’arte, ma che raccontano la storia delle comunità locali dell’isola.
Nel gennaio scorso, il Comune di Acate ha affidato “u Canali” ai ragazzi dell’Istituto Comprensivo “Alessandro Volta” del paese, secondo la nota formula dell’”Adottiamo un monumento”: iniziativa lodevole, ma che meriterebbe il supporto di un restauro almeno strutturale dello storico lavatoio, prezioso segno della storia del paese ragusano.
ReportageSicilia ringrazia Gaetano Cafici della collaborazione 

Il castello di Acate, il più noto monumento del centro agricolo ragusano.
L'immagine è tratta dall'opera di Alba Drago Beltrandi "Castelli di Sicilia",
edito nel 1956 da Silvana Editoriale d'Arte.
La fotografia porta la firma illustre di Fosco Maraini
  

domenica 9 settembre 2012

IL DIFFICILE DESTINO DELLO SPASIMO


Materiali lapidei giacenti dentro la navata centrale dello Spasimo 
prima del restauro.
Il complesso monumentale palermitano, dopo decenni di abbandono e la riapertura
dopo gli interventi di recupero del 1995,
versa di nuovo in condizioni di degrado.
L'edificio è chiuso al pubblico da mesi e le aspettative di una riapertura devono fare i conti con la penuria delle risorse economiche comunali.
Le immagini della chiesa sono tratte dalla pubblicazione "Lo Spasimo"
edita dal Comune di Palermo nel 1995

Non c’è monumento a Palermo più dimenticato per secoli dalla città e poi diventato – dopo il recupero – uno dei suoi simboli culturali: lo Spasimo, o, per essere più precisi, la chiesa di Santa Maria dello Spasimo, nel quartiere della Kalsa.
Fu nel 1995 che il complesso monumentale, con l’annesso ex ospedale “Principe Umberto”, venne riconsegnato ai palermitani ed ai turisti; la sua volta a cielo aperto, simile a quelle di San Galgano in Toscana e della chiesa do Carmo a Lisbona rappresentava un’eccezionale richiamo per i visitatori.
Oltretutto, lo Spasimo è per la Sicilia quasi un “unicuum” artistico, grazie alle sue matrici architettoniche gotico-settentrionali caratterizzate dalla predominanza delle volumetrie, dallo slancio in verticale di abside a pianta poligonale coperta da una volta stellare con possenti arcate a sesto acuto e con quattro monofore sguinciate sui muri conclusivi dell’impianto a croce.

Elementi architettonici provenienti da altri edifici palermitani abbandonati all'interno dell'abside dello Spasimo,
a partire dalla fine del secolo XIX.
Nei suoi 500 anni di storia, l'edificio architettonico ha patito la continua modifica di destinazione d'uso, che l'ha trasformato anche il lazzaretto e  deposito di carrozze
Nato agli inizi del secolo XVI come convento dei padri di Monte Oliveto grazie ad una donazione del giureconsulto palermitano Girolamo Basilicò – devoto alla “Madonna che soffre per il Cristo in croce”, e da qui la denominazione di “Spasimo” – il convento non venne mai completato.
Nel corso dei secoli successivi, l’edificio avrebbe ospitato via via spettacoli teatrali, un lazzaretto per malati di peste, un deposito di carrozze del Senato cittadino, un ospizio per poveri, un sifilicomio, un deposito per la custodia di neve ed, infine, un magazzino di reperti d’arte provenienti da altri monumenti cittadini.
Vegetazione ed elementi decorativi che prima del restauro impedivano quasi l'accesso all'interno della chiesa.
I primi interventi di recupero ebbero inizio nel 1988, dopo il crollo di un bastione che nel dicembre di due anni prima sembrò compromettere il destino del complesso architettonico
 
“La molteplicità degli usi, il lungo abbandono, la totale mancanza di manutenzione – scriverà Renato Palazzo – può far comprendere lo stato di abbandono raggiunto e di precarietà delle strutture ed il loro lento ed inesorabile volgere verso la condizione di rovina”.
Non meno sofferte furono poi gli eventi che portarono in Spagna – oggi al Museo del Prado – l’opera di Raffaello dedicata alla Madonna dello Spasimo commissionatagli nel 1516 dallo stesso Girolamo Basilicò. Il quadro, nel 1661, finì in maniera non documentata nelle mani di tale D.Giovanni Dies che lo donò al vicerè spagnolo D.Ferdinando D’Ayala: da qui, l’opera di Raffaello prese presto il mare con destinazione Madrid, presso la corte di Filippo V. 

Dal precario deposito di reperti architettonici recuperati all'interno dello Spasimo figurarono numerosi calchi in gesso provenienti
dall'Accademia di Belle Arti di Palermo 
Purtroppo, alcuni interventi di manutenzione elettrica,  nell'agosto del 2009 - ed un successivo sequestro giudiziario della Procura, legato al rischio di crolli di intonaci e paramenti murari, nell’ottobre del 2011 - costringono lo Spasimo alla chiusura.
Il Comune di Palermo aveva preannunciato un restauro entro questa estate, ma il timore è che i bilanci in rosso di palazzo delle Aquile possano nuovamente far cadere lo Spasimo nell’abbandono.

In questa incisione di Minneci e Filippone è evidente
lo stato di degrado dello Spasimo
già nei primi decenni del secolo XIX: l'opera è datata 1834
 
In attesa che i fatti smentiscano le preoccupazioni per il monumento della Kalsa, ReportageSicilia ripropone alcune fotografie che documentano lo stato di degrado dell’edificio prima del 1995.
Le immagini sono tratte dalla pubblicazione “Lo Spasimo”, un ormai raro libretto edito quell’anno dal Comune di Palermo con testo critico di Giovanni Palazzo.
  
"La Madonna che soffre dinanzi il Cristo in croce" è l'opera che Raffaello dipinse nel 1516 per il giureconsulto palermitano Girolamo Basilicò,
che donò l'opera al convento dello Spasimo.
Il quadro finì in Spagna presso la corte di Filippo V in circostanze poco chiare
e si trova oggi esposto al Museo del Prado.
L'immagine è tratta da www.museodelprado.es
   
 

giovedì 6 settembre 2012

PUNTA RAISI, LA PISTA DELLE CAVERNE

Le piste dell'aeroporto palermitano di punta Raisi,
inaugurato nel gennaio del 1961.
Fra le molte oscure vicende che accompagnarono la scelta del sito per la costruzione dello scalo aereo, figura anche quella della presenza di due vaste grotte nella zona dell'aerostazione e della torre di controllo.
Il cemento coprì ogni traccia delle caverne,
un tempo rifugio di pastori e greggi.
Fotografia di ReportageSicilia 

Bisognerà scriverla bene e tutta, la storia figura della costruzione dell’aeroporto palermitano di punta Raisi. L’opera venne progettata a partire dal 1954, ed è noto solo nei suoi contorni lo scontro politico ed affaristico-mafioso che giustificò la querelle circa la scelta finale del sito, fra la piana di Bagheria e punta Raisi; quest’ultima località alla fine prevalse nella preferenza di Stato e Regione, malgrado l’inadeguatezza delle condizioni di volo e le ingerenze negli appalti della mafia di Castellammare del Golfo, Carini e Terrasini ( un interesse legato anche all’utilizzo dello scalo aereo per il trasporto di droga da e per gli Stati Uniti ).
Fra le pieghe delle tante contraddizioni in cui nacque l’impianto di punta Raisi – entrato in funzione nel gennaio del 1961 – vi è anche la storia delle due vaste caverne sulle quali venne gettato il cemento della pista di rullaggio.

Un atterraggio a punta Raisi sulla punta del Mulinazzo.
In passato, la presenza delle grotte al di sotto della pista di rullaggio è stata ricordata da avvallamenti e piccoli cedimenti, causati dal peso dei jet.
La fotografia è di ReportageSicilia
 
Già ben prima della progettazione dell’aeroporto, le grotte – ubicate ad Est della vecchia aerostazione e della torre di controllo - erano conosciute dai pastori della zona, che vi ricoveravano le loro greggi. Altrettanto note avrebbero dovuto essere anche ai tanti tecnici incaricati di svolgere i sopralluoghi che anticiparono l’avvio dei cantieri; la presenza delle vaste cavità tuttavia non fermò i lavori, salvo poi riproporsi – come nel gennaio del 1972 - con periodici cedimenti del piano di rullaggio, causati dal transito dei pesanti jet.
Delle due grotte di punta Raisi oggi non c’è più traccia visibile.
Rimane invece quasi integra un’altra grande cavità – la grotta dello Zubbio o Biondo - riscoperta nel maggio del 1980 duranti i lavori per la costruzione degli svincoli di accesso all’autostrada per punta Raisi e Mazara del Vallo, nei pressi di Villa Malatacca.
La caverna – già nota nel Settecento ed ispezionata in parte nel 1932 da un ingegnere ungherese, Aspel Kirner – offre lo spettacolo di coloratissime stalattiti e stalagmiti a piramide, a colonna e drappeggiate: un monumento della natura poco o per nulla noto ai palermitani, ma che almeno non ha subìto quelle colate di cemento che hanno invece cancellato le grotte di punta Raisi.

Un'immagine della grotta dello Zubbio o Biondo, più volte "riscoperta" nel corso dei secoli nell'attuale zona dell'ingresso dell'autostrada
Palermo-punta Raisi-Mazara del Vallo.
La spettacolare caverna è stata salvata dalle ruspe durante i lavori di costruzione degli svincoli che conducono
in direzione dell'aeroporto palermitano.
La fotografia è tratta dal saggio di Pietro Todaro "Il sottosuolo di Palermo", edito da Libreria Dario Flaccovio nel 1988