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giovedì 28 giugno 2012

LA GRANITA DI LIMONE DI NENE' E LULU'

Un gelataio con il suo carretto nella Caltanissetta degli inizi
degli anni Sessanta.
L'immagine è attribuita ad Anfosso ed è stata pubblicata sul numero di settembre del 1962 della rivista del TCI "Le Vie d'Italia" 

“- E che granita è? – fece Nenè, disgustato: ma dopo avere scolato, in parte sul vestito, l’ultimo sorso squagliato. – La granita è quella di don Pasqualino: appena arrivo a Nisima ne prenderò un pozzetto pieno.
- E’ meglio di quella di don Pasqualino – disse Lulù: per contraddirlo, senza convinzione.
- Non capisci niente: questa è fatta di acqua, limonina e zucchero; don Pasqualino la fa invece col limone, e ci mette anche il bianco dell’uovo – spiegò Nenè con competenza”.
Nenè e Lulù sono i due fratellini che accompagnano il viaggio in treno dell’ingegnere Bianchi fra Roma ed Agrigento, nel racconto di Leonardo Sciascia “Il mare colore del vino”; ad un loro dialogo, appunto, lo scrittore affida l’elenco degli ingredienti necessari per ottenere una buona granita di limone, che in Sicilia non può che accompagnarsi ad una soffice e fresca brioche, da servire rigorosamente a parte.
Ho ripensato a quella discussione fra Nenè e Lulù pochi giorni fa, gustando ottime granite di limone e di mandorla in una gelateria romana nel quartiere Pigneto, gestito con cortesia e bravura da Carla.
Certo, la brioche – di tipo industriale – non possedeva la fragranza di quelle servite in molte gelaterie dell’isola; ma è indubbio che quelle granite ricordavano gli standard artigianali siciliani che purtroppo sono stati nel frattempo persi da tanti gelatai dell’isola.
In quanto a Leonardo Sciascia ed ai suoi scritti in tema di gelati, il sospetto è che lo scrittore agrigentino fosse un cultore della specialità.
Sulle pagine del quotidiano palermitano ‘l’Ora’, nel 1965, apparve infatti una sua celebrazione del gelato al gelsomino, specialità oggi quasi del tutto scomparsa dalle liste dei gusti offerti dalle gelaterie.
Nel suo intervento, Sciascia riportava anche la ricetta del conte Lorenzo Magalotti, letterato dell’aristocrazia fiorentina del secolo XVIII: “torli d’uovo appena cotti, zucchero in abbondanza, un po’ di odor di muschio e d’ambra, una trentina di gelsomini, due limoncini; il tutto bene agitato in ‘tersa porcellana’, poi passato attraverso ‘finissima stamigna’ poi messo nella sorbettiera e la sorbettiera calata in un pozzetto di ghiaccio”.

venerdì 22 giugno 2012

CARAVAGGIO, QUEL FURTO DIVENTATO MITO

Un saggio edito da Sellerio di Luca Scarlini - scrittore e drammaturgo fiorentino - ricostruisce la complessa vicenda del furto della 'Natività' di Caravaggio a Palermo, nell'ottobre del 1969.
"In quel periodo - spiega l'autore a ReportageSicilia - la città dimostrò di non sapere difendere, insieme ai beni culturali,
anche la propria memoria storica"
“Mito e cronaca di un furto”, così giustamente detta il sottotitolo del libro di Luca Scarlini “Il Caravaggio rubato”; opera edita da Sellerio ed ovviamente dedicata alla storia della scomparsa della ‘Natività’ trafugata in una ventosa notte fra il 17 ed il 18 ottobre del 1969 dall’Oratorio palermitano di San Lorenzo, vigilata soltanto dagli occhi delle numerose statue di stucco del Serpotta.
Il libro di Scarlini, saggista e drammaturgo fiorentino, ricostruisce le cronache del furto e le molte ipotesi sulla sorte del quadro.
L’autore – appassionato d’arte e con numerosi precedenti letterari - conosce bene Palermo, grazie alle datate frequentazioni degli ambienti teatrali cittadini.

Realizzata nel 1609 da Michelangelo Merisi per la Compagnia di San Francesco nell'Oratorio di San Lorenzo, la 'Natività' è fra le opere d'arte rubate più ricercate dagli organismi investigativi internazionali.
Nel suo saggio, Scarlini raccoglie indicazioni, mezze verità e illazioni che ancor oggi a Palermo accompagnano le varie ipotesi sul destino
della tela caravaggesca  
Pur non essendo un cronista di nera, Scarlini ha scandito il racconto della scomparsa dell’opera del Caravaggio raccogliendo le testimonianze di investigatori, vecchi antiquari d’arte ed altri personaggi cittadini testimoni più o meno diretti dei fatti.
Nel corso di oltre 40 anni, sul caso del furto non sono mancate anche le indicazioni di numerosi pentiti di Cosa Nostra: da Francesco Marino Mannoia a Salvatore Cangemi, da Vincenzo La Piana a Gaspare Spatuzza; i loro racconti hanno finito con rendere il furto della preziosa tela una contraddittoria storia di mafia, tuttora aperta a diversi possibili epiloghi.

Sull'altare dell'Oratorio di San Lorenzo, le statue di stucco del Serpotta fanno da eccezionale cornice al vuoto lasciato
dai ladri della tela della 'Natività'. 
"Alcuni antiquari - spiega Scarlini - mi hanno suggerito l'identità degli autori del trafugamento, ma i loro nomi, a distanza di tanti anni, nulla aggiungono alla storia del furto ed alla possibilità di ritrovare l'opera"
L'immagine è tratta da http://www.amicimuseisiciliani.it/
Fatti e false verità accompagnano il mistero della scomparsa della tela: il libro di Scarlini ripercorre le richieste di riscatto mai accettate, la tesi della distruzione dell’opera in Irpinia - durante i giorni del terremoto – ma anche le singolari e poco note vicende riguardanti una copia del capolavoro conservata a Catania.
La ricerca di Scarlini, infine, ricostruisce anche il contesto di incredibile leggerezza grazie alla quale la Palermo della fine degli anni Sessanta agevolò il furto del quadro del Caravaggio: una storia nella storia del furto, vista l’assoluta assenza di strumenti di vigilanza dentro e fuori l’Oratorio e l’ignoranza circa la presenza della preziosa opera d’arte a Palermo delle massime autorità cittadine.

Architettura religiosa tardocinquecentesca
nel quartiere di Ballarò.
"Miei amici palermitani - spiega Scarlini - mi hanno raccontato del totale stato di abbandono in cui versavano i monumenti del centro storico cittadino negli anni del furto della tela caravaggesca".
Fotografia di ReportageSicilia 
“Al demerito del gesto – scrisse a questo proposito Giuseppe Servello, il 30 ottobre 1969 sulle pagine del ‘Giornale di Sicilia’ – i ladri possono opporre un merito culturale, perché con la loro iniziativa hanno fatto conoscere alla stragrande maggioranza dei palermitani l’esistenza di un capolavoro d’arte in famiglia”.

ReportageSicilia
“Il furto della Natività dall’Oratorio di S.Lorenzo è una delle vicende più analizzate e dibattute da investigatori, giornalisti ed esperti d’arte in Italia. Qual’è stato il suo approccio al caso?
Luca Scarlini
“Non sono un giornalista di cronaca nera, ma mi interesso di furti d’arte e del mito che finisce con l’accompagnare la scomparsa delle opere. Il furto della ‘Natività’ rappresenta il caso più noto di un certo atteggiamento di incuria verso l’arte che si registrò in Italia tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta.
Fra i capolavori rubati in quel periodo ricordo, nelle Marche, un quadro di Raffaello e due di Piero della Francesca: trafugati nel 1973, furono recuperati due anni dopo. Nel panorama dei furti d’arte, la Sicilia e Palermo subirono un’esposizione di primo piano.
Miei amici palermitani che abitano il centro storico mi raccontano del totale stato di abbandono in cui versarono in quegli anni i monumenti della città: chiese ed edifici storici vennero sistematicamente spogliati di oggetti artistici ed arredi. E’ stata quella una stagione nella quale la città, insieme ai propri beni culturali, non ha saputo difendere la propria memoria storica”

Luca Scarlini, l'autore del saggio "Il Caravaggio rubato.
Mito e e cronaca di un furto" edito da Sellerio.
Lo scrittore toscano http://www.lucascarlini.it/ - appassionato d'arte e della storia dei furti d'arte - frequenta da anni Palermo grazie ai suoi legami con gli ambienti teatrali cittadini 
RS
“Si è detto che il furto venne agevolato anche dal fatto che pochi palermitani fossero a conoscenza dell’esistenza del quadro di Caravaggio all’interno dell’Oratorio, edificio allora privo di sistemi di sicurezza ed allarme”
LS
“Non è esattamente così. Ovviamente, molti esperti d’arte locali sapevano della collocazione della ‘Natività’. All’epoca del trafugamento si diede colpa del furto alla trasmissione da parte della Rai di un servizio sull’Oratorio.
Qualcuno contestò il fatto che si fosse mostrato il quadro del Caravaggio, esponendolo al rischio della sottrazione. Ho rivisto nelle teche Rai quel filmato e posso assicurare che furono mostrati a lungo gli stucchi del Serpotta: pochissimi secondi furono invece dedicati alla ‘Natività’…”

RS
Che idea si è fatta sugli autori del furto? Numerosi collaboratori di giustizia hanno fornito indicazioni contrastanti sul ruolo di mandante di Cosa Nostra…”
LS
“Alcuni antiquari mi hanno suggerito l’identità degli autori del trafugamento della tela. Si tratterebbe di semplici “scassapagghiara”; i loro nomi, a distanza di decenni dall’episodio, non aggiungono nulla alla storia del furto ed alle possibilità di un recupero.
Parlando con cronisti esperti di mafia, l’impressione è invece che i racconti dei “pentiti”, pur suggerendo il ruolo delle cosche nel caso, siano più che altro serviti a sviare l’attenzione da processi e casi giudiziari di diversa natura.
Nel libro poi si ricostruiscono altri aspetti poco noti della storia del furto: le testimonianze di chi ha visto l’opera, anni dopo il trafugamento, ed un tentativo di recupero della tela non andato a buon fine. Un dato certo sembra essere quello che a metà degli anni Settanta la ‘Natività’ fosse comunque danneggiata”
RS
“L’ultima domanda, forse scontata ma logica. Dopo avere raccolto impressioni, testimonianze e documentazione sulla vicenda, è possibile ipotizzare che la ‘Natività’ sia ancora esistente e recuperabile?”
LS
“Io spero di sì. Riguardo la questione di una restituzione della tela, poi, bisogna considerare che dopo tanti decenni, il reato di furto è caduto in prescrizione. Quindi la speranza esiste”











mercoledì 20 giugno 2012

I FELICI BAGNI CATANESI DI ERCOLE PATTI

Una veduta di Catania dal mare Jonio in uno scatto pubblicato dal volume 'Sicilia' edito nel 1933 dal Touring Club Italiano. 
In questo post, ReportageSicilia ripropone una parte del prologo scritto da Ercole Patti al suo libro di racconti "Diario Siciliano", edito da Bompiani nel 1971: pagine in cui emerge il rapporto di istintiva felicità che lega molti siciliani al bagno nel loro mare,
alimentando il desiderio di altri piaceri  

Torrido caldo di giugno a Roma; il desiderio montante del mare si sgonfia al pensiero della plumbea acqua di Ostia e Fregene e del penoso prologo della ricerca di un parcheggio, dopo estenuanti ore trascorse in auto od in vespa.
Meglio restare a casa, allora, e coltivare il desiderio di un ritorno in Sicilia, per un bagno vero, per il quale basterà portare con sè un telo da mare ed una bottiglia d’acqua.
Bisognerebbe spiegare ai romani cos’è quella strana euforica felicità che prende i siciliani all’idea stessa di un bagno in mare; e tentare di far intuire l’eccitazione che prende dopo un tuffo nell’acqua blu, dopo l’attesa di un breve tragitto da casa accompagnato dal piacere di una sosta per la brioche col gelato od il panino con le panelle.

Un'immagine di Ercole Patti, giornalista e scrittore ( Catania 1913-Roma 1976 ) autore di "Diario Siciliano", che raccoglie vari scritti dispersi su giornali, libri e nei suoi cassetti personali.
Nel prologo, Patti ricorda la felicità procuratagli dal mare di Catania, che "penetrava nelle narici, attaccava le mucose, faceva lagrimare gli occhi durante i numerosi tuffi a chiodo fatti dal piccolo trampolino spogente dalla scogliera di Guardia Ognina"
In molti isolani il bagno amplifica la percezione sensoriale dei piaceri, in un fluente passaggio fra l’appagamento del desiderio marino appena realizzato e la percezione di prossime voluttà, gastronomiche ed ormonali.
Una straordinaria sintesi di questi sentimenti del siciliano in una giornata estiva al mare è contenuta nel prologo che il giornalista e scrittore catanese Ercole Patti scrisse nella raccolta di racconti che porta il titolo “Diario Siciliano”.
“L’odore del mare di Catania nel 1920, – scrisse Patti, che proprio a Roma visse a lungo nel ricorrente desiderio della Sicilia - quell’odore di vecchie tavole imbevute di salsedine, di scogli ricoperti di alghe verdi o avana pallido carnose e sensibili come branche di polpo.

Il mare di Ognina, luogo di bagni estivi evocati da Ercole Patti.
In "Diario Siciliano" si legge che "si tornava a casa verso l'una stanchi e spossati dal bagno mentre il solleone infuriava. Pomeriggi estivi interminabili; i gridi dei venditori ambulanti arrivavano da lontano lamentosi e indecifrabili attraverso le tendine di cannucce di paglia, e risuonavano nella penomba frasca e ventilata delle stanze...".
La fotografia - attribuita a PGS - è tratta dal volume 'Sicilia' di Aldo Pecora edito da UTET nel 1974 
L’aria marina trascorreva tra i pali e le passerelle di legno dei vecchi stabilimenti balneari. Qualche riccio bluastro si vedeva sul fondo ingrandito dall’acqua limpida sotto la verandina battuta dalla brezza marina.
Il mare salato penetrava nelle narici, attaccava le mucose, faceva lagrimare gli occhi durante i numerosi tuffi a chiodo fatti dal piccolo trampolino sporgente dalla scogliere di Guardia Ognina.
Mentre l’acqua marina scivolava sul corpo felice i pensieri confusi del meraviglioso pomeriggio da trascorrere ronzavano nella testa sommersa sott’acqua.
L’acqua scorreva sul corpo compatto ed abbronzato in un desiderio struggente della pasta con le melanzane che aspettava a casa sotto un piatto capovolto ancora tiepida. Il desiderio della pasta con le melanzane era simile come intensità a quello di vedere gli occhi della figlia dell’avvocato si affacciava alla bassa finestra della casa di fronte.
Il rombo leggero del mare che si insinuava fra gli scogli e ne tornava fuori con un movimento di risucchio scoprendo qualche patella che se ne stava leggermente sollevata sulla parete dello scoglio quasi per respirare pronta ad attaccarsi saldamente con la ventosa se qualcuno la toccava.

"La giornata si annuncia bella. L'Etna appare nitida in tutti i suoi contorni.
 'La montagna è pulitissima - dice il massaro - sembra leccata dai gatti...'"
La fotografia - attribuita a Stefani-Milano - ritrae la costa di Riposto ed è tratta dal volume 'Sicilia' edito da Sansoni nel 1962
 Durante quelle ore marine mentre l’acqua grondava e si asciugava subito sulla pelle la vita sembrava non dovesse mai aver fine ed era disseminata di ore bellissime, di risvegli dopo un leggero sonno pomeridiano nella stanza in penombra mentre attraverso le stecche dello storino abbassato arrivava il vento rinfrescato del meriggio…
Il mare rotolava sulla sabbia liscia della spiaggia.
L’olio delle meduse marine vi galleggiava in piccole chiazze e causticava la pelle soltanto che la sfiorasse appena. Il braccio tenero bruciato dall’olio della medusa; si sentiva l’eco del grido di allarme dei ragazzi che risuonava fra gli scogli: ‘L’olio a mare! L’olio a mare!’. Nelle narici c’era l’odore delle erbe carnose verdine e ondulate come una frangia di stoffa. L’estate dilagava nel cielo a grandi ondate silenziose…”.
L’estate di Ercole Patti scopre la vena narrativa grazie alla quale lo scrittore svelò la sua ricerca della felicità nei paesaggi e negli umori della Sicilia etnea.

Una veduta aerea del mare catanese fra Acicastello ed Acitrezza, in quello che Ercole Patti definì a ragione "uno dei più bei paesaggi siciliani.
 La strada in alto corre fra giardini di limoni che in certi punti precipitano in ripido pendio verso la costa. Qualche casetta sorge in mezzo al verde scuro e vivo dei limoni, con la facciata rivolta verso il mare che laggiù in fondo si vede schiumare appena appena contro le scogliere".
La fotografia riproposta da ReportageSicilia porta la firma della Regia Aeronautica ed è tratta
dal volume 'Sicilia' edito dal TCI nel 1933


Nella quarta di copertina del “Diario Siciliano” – edito da Bompiani nel 1971 – così Eugenio Montale descriveva quella scintilla letteraria: “L’ispirazione spesso sembra morderlo come una tarantola, scuoterlo da un sonno atavico ed in quei momenti è impossibile scrivere meglio di lui, con più scaltra misura, con gusto più perfetto”.

Un turista sulla spiaggia catanese della Plaia.
L'immagine è attribuita ad Alario ed è tratta dal volume 'Sicilia'
edito da Sansoni nel 1962

giovedì 14 giugno 2012

LA PERENNE TRATTATIVA FRA STATO E MAFIA

Vito Ciancimino, dirigente della Democrazia Cristiana di Palermo per un trentennio, vice capo corrente di Fanfani ed amministratore del Comune di Palermo per oltre un quarto di secolo, rappresenta efficacemente la continuità storica della politica della "trattativa" fra Stato e mafia.
L'immagine è tratta dal saggio di John Dickie "Cosa Nostra",
edito da Laterza nel 2004 
Mentre si avvicina il ventennale dalla strage Borsellino – eccidio per il quale la ricerca del movente prospetta inconfessabili verità giudiziarie – le cronache siciliane di queste ore rilanciano sui media l’argomento del rapporto fra Stato e mafia.
La Procura di Palermo ha infatti chiuso l’inchiesta sulla presunta trattativa avviata da pezzi delle istituzioni e Cosa Nostra, nel periodo che va dal 1992 al 1993: dall’omicidio Lima alle stragi Falcone e Borsellino e sino alle bombe fatte esplodere a Roma, Firenze e Milano.
Secondo la ricostruzione dei magistrati palermitani, l’ex ministro Calogero Mannino sarebbe stato il primo ad avviare le trattative con i boss, all’inizio del 1992, nel periodo dell’uccisione a Mondello del leader siciliano della Democrazia Cristiana.


Il vecchio capomafia nisseno Giuseppe Genco Russo in conviviale compagnia con il Prefetto di Caltanissetta, il sindaco di Acquaviva Platani e l'onorevole Nino Gullotti, segretario regionale della DC nel 1954 e poi, nel 1975 e nel 1979, rispettivamente ministro della Sanità e vicesegretario nazionale
della stessa Democrazia Cristiana.
La fotografia - al pari delle due che seguono - sono tratte dal saggio di Michele Pantaleone "Mafia: pentiti?", edito da Cappelli editore nel 1985 
 L’inchiesta – che potrebbe portare al rinvio a giudizio dei personaggi indicati nell’ordinanza, frutto di quattro anni di indagini – chiama in causa fra gli altri l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, quello dell’Interno, Nicola Mancino, l’ex capo dell’amministrazione carceraria Adalberto Capriotti, l’ex europarlamentare Giuseppe Gargani, i boss corleonesi Riina, Provenzano e Bagarella, Giovanni Brusca ed Antonino Cinà e gli allora ufficiali dei Carabinieri del ROS Subranni, Mori e De Donno.
Proprio questi ultimi – secondo la Procura di Palermo – grazie alla mediazione dell’ex sindaco Vito Ciancimino con Riina e Provenzano, avrebbero agevolato “l’instaurazione di un canale di comunicazione finalizzato a sollecitare eventuali richieste di Cosa Nostra”.

Altra rilassata foto di gruppo per Giuseppe Genco Russo con politici nisseni del suo tempo: il senatore democristiano Angelo Di Rocco, più volte Sottosegretario di Stato alla Pubblica Istruzione e l'onorevole Salvatore Aldisio, uno dei fondatori della DC nell'isola e ministro della Marina Mercantile, dei Lavori Pubblici e del Commercio 
Come riassume oggi Giovanni Bianconi sul “Corriere della Sera”, Calogero Mannino, “vittima predestinata della campagna avviata con l’uccisione di Salvo Lima, proprio per avviare quella sorta di contrattazione con la mafia avvicinò ‘esponenti degli apparati info-investigativi’ per acquisire informazioni sui boss. Dopodichè, consumate le stragi del 1993, avrebbe esercitato ‘ indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento giudiziario’, cioè il carcere duro”.
Il clamore suscitato in queste ore dalle conclusioni della magistratura palermitana – conclusioni che attendono ora il riscontro processuale – non può non fare dimenticare che “le trattative” fra Stato e mafia fanno parte della storia stessa del rapporto fra le politica italiana e siciliana e Cosa Nostra.
Basta rispolverare i cinquantennali atti della Commissione Parlamentare Antimafia per trovare indicazioni precise sui tanti casi in cui esponenti politici hanno concluso accordi con boss mafioso, partendo dall’appoggio elettorale.
ReportageSicilia ripropone alcune immagini che testimoniano l’antica propensione alla “trattativa” fra Stato e mafia, ed in particolare quelle promosse dal vecchio capomafia  Giuseppe Genco Russo con politici di primo piano della sua stessa provincia. 
Frequentazioni impresentabili - quelle esemplificate da queste fotografie - che indicano la natura cancerosa del rapporto fra Stato e mafia, gravato in Italia anche dall'ingerenza di camorra e 'ndrangheta.

L'onorevole democristiano Calogero Volpe - al centro della foto, con la coppola - in visita in uno
dei paesi del suo colleggio elettorale.
Volpe - Sottosegretario di Stato ai Trasporti, alla Sanità ed alle Poste - venne indicato come uno dei politici più legati a Giuseppe Genco Russo



martedì 12 giugno 2012

LE SICILIANE DI EZIO QUIRESI

Rifornimento d'acqua da una fontana pubblica a Capo d'Orlando.
L'immagine - datata 1957 - porta la firma di Ezio Quiresi.
Il fotografo cremonese è anche l'autore di tutti gli altri scatti riproposti in questo post da ReportageSicilia.
Il materiale documentario di Quiresi è tratto dall'opera "Donne-Il lavoro femminile in Italia nel Dopoguerra in 80 fotografie", edita nel 2006
da Monte Università Parma Editore
Alcune delle fotografie riproposte dai post di ReportageSicilia – soprattutto quelle tratte da vecchi libri del TCI - portano la firma di Ezio Quiresi.
Nato nel 1925 a Cremona, dopo un’esperienza di lavoro in fabbrica in Svizzera, nel 1950 Quiresi acquistò la sua prima macchina fotografica – una Voigtlander Bessa 6x9 – con la quale iniziò a fotografare come amatore le rive del Po e le campagne cremonesi.
Saranno quegli scatti a fargli vincere i primi premi locali, facendolo approdare nel 1953 al Salone Internazionale di Venezia.
Due anni dopo, ricevette l’incarico dal Comune di Cremona di documentare le vacanze dei bambini in colonia; nel 1957 – dopo avere ricevuto il riconoscimento di Artista dalla Federazione Internazionale di Arte Fotografica - iniziò infine quella collaborazione professionale con il Touring Club Italiano documentata appunto anche da ReportageSicilia.

Una fruttivendola del mercato palermitano della Vucciria, nel 1960.
Quiresi è noto per le sue fotografie commissionate dal Touring Club Italiano
e pubblicate sulla collana "Attraverso l'Italia"
L’opera successiva di Quiresi si legherà alla pubblicazione di libri fotografici per Garzanti, De Agostini, Utet, Mondadori ed Electa.
Le immagini siciliane di Ezio Quiresi rientrano dunque in quell’opera di reportage svolta dalle Alpi sino ai mercati popolari di Palermo, nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta.

Anche in questa seconda fotografia realizzata tra i banchi della Vucciria - intitolata "venditrice di uova " - Quiresi rifugge da ogni ricerca del colore locale, raccontando semmai con un solo scatto la vita del suo soggetto.
In questo caso, il sonno della venditrice svela la sua faticosa esistenza da ambulante, portata avanti con un decoro evidenziato
dalla cura nell'esposizione delle uova
Le fotografie riproposte in questo post da ReportageSicilia fanno parte di quel periodo e sono tratte dal saggio ‘Donne-Il lavoro femminile in Italia nel Dopoguerra in 80 fotografie’.
L’opera è stata edita nel 2006 da Monte Università Parma Editore ed offre un riassunto dell’archivio di scatti che Ezio Quiresi dedicò alle donne italiane.

Una donna cavalca il suo asino portando con sè un bambino: sullo sfondo - siamo nel 1960 - si scopre
la rocca nissena del castello di Mussomeli.
Se in Emilia Romagna ed in Piemonte le donne di Ezio Quiresi erano spesso ritratte a bordo di biciclette, nelle campagne dell'isola il fotografo cremonese documenta il comune utilizzo del mezzo di trasporto animale,
spesso l'unico disponibile in famiglia 
“E’ un libro sull’Italia senza fili elettrici dell’alta tensione, senza autostrade e senza tutta la modernità che ha cambiato il volto del nostro Paese”, scrive Guido Conti nella prefazione.
Le donne siciliane ritratte nel volume – quella in groppa ad un asino con un bambino alle spalle su una trazzera nei pressi del castello di Mussomeli, o quelle con le tinozze del bucato a Marineo, o, ancora, le venditrici del mercato popolare della Vucciria – sono accostate alle contadine delle campagne bellunesi ed astigiane, alle vendemmiatrici gardesane od alle mondine di Pavia.

Due donne ed un bambino fotografati a Marineo,
lungo la strada che conduce a Corleone.
L'immagine di Quiresi porta il titolo "Bucato a Marineo" ed è datata 1960
Sono fotografie che documentano momenti di duro lavoro, di fatica sui campi o in piccole fabbriche o nei mercati popolari; non mancano poi neppure scatti che ritraggono gesti di incombenze private, specie quelli dedicati ai bambini.
Le donne di Quiresi, insomma, si rivelano protagoniste della società italiana e siciliana, in anni in cui il loro ruolo era generalmente riconosciuto e limitato al semplice supporto familiare e domestico.
Lo sguardo documentario di un cremonese formatosi tra i paesaggi e la gente del Po, riuscì a cogliere anche in Sicilia quella realtà di impegno femminile non sempre avvertito da altri contemporanei osservatori dell’isola.

Al mercato di Caltanissetta, nel 1957, gli occhi di questa donna
 svelano un turbamento
le cui motivazioni si perdono oltre i paletti della staccionata.
I fotoreportage di Quiresi hanno documentato, insieme ai volti dei suoi soggetti, anche la loro condizione umana: uno "specchio" della società locale, in un periodo di lentissimi cambiamenti nella società isolana
Nel Quiresi “siciliano”, infine, non manca neppure – come nel caso della donna ritratta al mercato di Caltanissetta – la scoperta di quei caratteri mediterranei, simili a quelli raccontati negli stessi anni in Andalusia da Fulvio Roiter.   

domenica 10 giugno 2012

I BORGHI FANTASMA DELL'ISOLA

Una fotografia datata 2006 di ciò che rimane ancor oggi di alcuni edifici del Borgo Giuliano a San Teodoro, nel messinese.
Il villaggio fece parte del sistema di borghi agricoli che secondo il regime fascista avrebbero dovuto favorire lo sviluppo delle campagne siciliane, cancellando i guasti del latifondo.
Le vicende del secondo conflitto mondiale e la successiva scandalosa gestione di questi borghi da parte dell'Ente Riforma Agraria Siciliana hanno determinato il fallimento dell'esperienza.
Oggi, gran parte di questi villaggi versa in stato di abbandono.
L'immagine è tratta dal sito www.comune.santeodoro.me.it  
“Ho visto i paesi fantasma della Sicilia, i paesi costruiti non si sa perché e non si sa per chi, case, strade, piazze, chiese, monumenti, scalinate, fontane. Nessuno è mai andato ad abitare in queste case, nessuno ha percorso queste strade e queste piazze. Fra gli archi dei portici, che sembrano ritagliati da un quadro metafisico, il passo richiama un’eco allucinata nella profondità del silenzio. Qui avrebbero dovuto cominciare una nuova vita i contadini siciliani riscattati dal latifondo: ma i borghi sono stati costruiti a distanze insuperabili dalle terre loro assegnate. Oppure erano vicini alle terre, ma allora mancava l’acqua. Oppure c’era anche l’acqua, ma sarebbe stato troppo costoso far arrivare la luce. Così l’opera è restata a metà, mentre si è messo mano ad un’altra impresa, che anch’essa non è arrivata a compimento perché una nuova autorità rivale ha conquistato il potere e non ha voluto confondere l’iniziativa propria e l’altrui: e pertanto, per la terza volta, si è ricominciato tutto daccapo, da un’altra parte, e ancora non è finito”.

Il Borgo Giuliano - intitolato a Salvatore Giuliano, combattente fascista morto in Africa nel 1938 - in una fotografia realizzata dal palermitano Eugenio Bronzetti nel periodo della sua fondazione.
Il villaggio venne inaugurato nel dicembre del 1940 dal ministro dell'Agricoltura Tassinari: i suoi edifici avrebbero dovuto assicurare i servizi essenziali ai braccianti agricoli di quest'area
della provincia di Messina.
Oggi le strutture versano in stato di completo abbandono, al pari della maggior parte degli altri borghi rurali costruiti in Sicilia anche dal governo della Regione 
Con queste parole, pubblicate il 23 giugno del 1963 sulle pagine del settimanale EPOCA, Giuseppe Grazzini descrisse l’abbandono e la rovina dei borghi rurali in Sicilia, costruiti per lo più durante il regime fascista.
Il progetto – partendo dalla costruzione ex novo di otto insediamenti agricoli – fu quello di favorire allora una corretta colonizzazione del latifondo isolano, stimato nel 1940 in 500.000 ettari.
Il Borgo Lupo nelle campagne catanesi di Mineo, in contrada Mongialino.
Il villaggio - che porta il nome di Pietro Lupo, medaglia d'oro al valor militare - venne costruito tra il 1940 ed il 1941 su progetto degli ingegneri Marino, Santangelo e Puglisi.
Era composto da 15 edifici, che, a causa dello scarso valore dei materiali da costruzione, subirono un rapido degrado.
Un intervento di ristrutturazione eseguito fra il 1958 ed il 1961 non ha rilanciato l'originaria funzione d'uso del borgo,
oggi abitato abusivamente da pochi residenti.
Anche questa immagine riproposta da ReportageSicilia - al pari di tutte le altre dello stesso periodo - porta la firma di Eugenio Bronzetti
La prosa retorica dello scrittore milanese Carlo Emilio Gadda, nel marzo del 1941, descrive i contenuti di quel piano edilizio.
“La colonizzazione, voluta ed ideata dal Duce – scrisse Gadda sulla rivista del TCI ‘le Vie d’Italia’ - si attua in sede tecnica sotto le ferme direttive dell’Eccellenza Tassinari, ministro per l’Agricoltura e le Foreste, secondo un tipo di appoderamento sparso, a cui è e tanto più sarà di sostegno il cosiddetto borgo rurale. La famiglia colonica viene insediata nella nuova casa rurale: sorge questa sul terreno stesso che gli uomini son chiamati a coltivare. La strada e l’acqua, i due termini perentori della bonifica, arrivano già oggi alla casa: l’Ente Autonomo per la Colonizzazione si occupa intensamente dei lavori di captazione, adduzione e distribuzione delle acque, nonchè degli accessi ai poderi. Compito esclusivo del borgo è quello di garantire tutti i servigi indispensabili al vivere della gente sparsa nei luoghi del lavoro, cioè nelle case rurali che sorgono o sorgeranno entro il raggio di influenza del borgo stesso. Questo raggio di influenza è stato valutato con prudente criterio a 5 o 6 chilometri, per modo che la zona di influenza si estenda ad una superficie di circa 10.000 ettari, ossia 100 chilometri quadrati, e non più”.

Le campagne nissene di località Xirbi con gli edifici del Borgo Gattuso, intitolato a Gigino Gattuso, definito dal regime "martire fascista". Venne fondato tra il 1939 ed il 1940 ed era posto al servizio di 250 assegnatari.
Il villaggio, progettato dall'architetto Edoardo Caracciolo, era costituito da 7 edifici di servizio destinati a municipio, ufficio postale e caserma dei Carabinieri, ambulatorio medico, scuola, chiesa e canonica, trattoria, alloggi per gli impiegati e bevaio.
Ristrutturato fra il 1958 ed il 1960, Borgo Gattuso venne ristrutturato: il villaggio rurale aveva però già perso ogni funzione originaria ed ai nostri giorni alcuni immobili vengono ancora abitati da poche famiglie  
La costruzione dei borghi rurali venne affidata dal regime fascista ad architetti siciliani – da Mendolìa a Caracciolo, da Marino a Marletta, da Baratta a Manetti-Cusa, da Gramignano ad Epifanio - “perché i nuovi aspetti dell’edilizia rustica aderissero ‘ab auctore’ al clima, al colore, al genio dell’isola, pur nei modi e nelle forme onde suole estrinsecarsi il disegno funzionali stico del tempo”.

La canonica annessa alla parrocchia di Borgo Gattuso.
Il fallimento dei borghi rurali in Sicilia risale, da un lato, alla loro incapacità funzionale di diventare i centri di sviluppo dell'economia agricola del territorio; dall'altro, specie nel dopoguerra, sprechi e politiche del clientelismo hanno finito con lo svilire del tutto ogni loro funzione produttiva 
Ad ogni villaggio fu dato il nome di un “eroe” caduto durante l’età del Ventennio e prima del secondo conflitto mondiale vennero completati i borghi Bonsignore ( Ribera ), Gattuso ( Caltanissetta ), Cascino ( Enna ), Fazio ( Trapani ), Giuliano ( Messina ), Lupo ( Mineo ), Rizza ( Carlentini ) e Schirò ( Monreale ).


In questo video tratto da YouTube si documenta il perdurante stato di degrado di ciò che rimane di Borgo Schirò, nel territorio di Monreale, ad una decina di chilometri da Corleone.
Intitolato a Giacomo Schirò - un bersagliere italo-albanese accoltellato a morte nel 1920 a Piana degli Albanesi - il villaggio si è progressivamente spopolato, sino ad ospitare soltanto il parroco della locale chiesa.
Nel 2000, dopo ripetuti saccheggi di tutto ciò che aveva ancora una funzione decorativa, anche il parrocco ha abbandonato il borgo, oggi rimasto in stato di totale abbandono.
Qualche anno fa, gli studenti dell'Accademia di Belle Arti di Palermo hanno decorato gli edifici fatiscenti, che attualmente ospitano di tanto le finte guerre degli appassionati di 'softair'.
Nel frattempo, un progetto di ristrutturazione del Comune di Monreale non ha modificato lo sfacelo di questi luoghi 

L'obiettivo di Bronzetti coglie l'isolamento di Borgo Schirò,
nelle campagne corleonesi.
Proprio la mancata costruzione delle infrastrutture necessarie a collegare questi villaggi al resto del territorio, hanno determinato il fallimento dei borghi rurali siciliani 
Dopo l’istituzione della legge sulla costruzione dei borghi agricoli isolani – nel gennaio del 1940 – furono costruite un totale di 2507 case coloniche; altre 300 erano in costruzione quando il regime fascista trascinò l’Italia nel conflitto, facendo della Sicilia uno dei principali terreni di guerra nel Mediterraneo.
Di fatto, il progetto dei borghi fu interrotto od eseguito in maniera precaria, con materiali edilizi di scarsa qualità.
A decretarne il suo definitivo fallimento furono gli anni del dopoguerra e delle tante occasioni di sviluppo perse dall’Autonomia della Regione.

Fondato nel 1941 su progetto dell'architetto Pietro Gramignani, il Borgo Rizza - dal nome di Angelo Rizza, militante fascista - segnò il paesaggio di contrada Tummarello, nel territorio di Carlentini.
Gli 8 edifici che lo costituivano vennero abbandonati negli anni Settanta; nel 2007, in Comune di Carlentini ha avviato un restauro del borgo, impegnando 850.000 euro e dovendo poi bloccare i lavori per la disponibilità di ulteriori fondi.
In tempi recenti, è stato proposto un progetto di ristrutturazione che vorrebbe riqualificare il borgo, ospitandovi un centro per la ricerca vivaistica e lo sviluppo delle colture agrumicole ed olivicole
L’ERAS – l’Ente Riforma Agraria Siciliana, costituto nel 1950 per succedere all’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano – diede prova di quello che l’inchiesta di Giuseppe Grazzini definì ancora come “un semplice ed impressionante compendio di tutte le circostanze nelle quali la rettitudine dei singoli e le strutture amministrative della Regione, teoricamente valide, scompaiono nel grande assalto alla diligenza”.

Inaugurato nel dicembre del 1940, il Borgo Bonsignore venne costruito nelle campagne di Ribera, nell'area che oggi fa parte
della Riserva Orientata Foce del Fiume Platani.
Il nome del villaggio si lega a quello di Antonio Bonsignore, un capitano dei Carabinieri morto nel 1936 nell'allora Africa Orientale italiana.
Al suo impianto originario - fra i meglio conservati tra tutti gli esempi di borghi rurali della Sicilia - si sono unite nuove case di villeggiatura e strutture turistiche 
Pur avendo ottenuto dallo Stato un contributo iniziale da 120 miliardi di lire – fondi calcolati su un milione per ettaro, in rapporto alla superficie della Sicilia destinata allo scorporo – l’ERAS poco fece per l’impiego concreto delle ingenti risorse, e nulla per il completamento dei borghi rurali costruiti prima della guerra.
Il criterio della dirigenza dell’Ente fu semmai quello di costruire una nuova trentina di borghi – scelta che alimentava ben più appetibili appalti – o di favorire un massiccio allargamento della sua pianta organica, che passò dai 200 dipendenti ai quasi 3.000, ovviamente con motivazioni clientelari.

Una piazza di Borgo Bonsignore svela il funzionalismo che ispirò la progettazione dei borghi rurali siciliani.
Costruiti nei mesi del coinvolgimento dell'Italia nel secondo conflitto mondiale, questi villaggi furono completati con materiali di scarsa qualità e senza che si definissero le infrastrutture che avrebbero dovuto creare un reale rapporto con il territorio circostante
Oggi il degrado strutturale e l’abbandono dei borghi agricoli siciliani raccontano la storia di uno dei molti fallimenti della politica regionale, capace di mortificare energie e potenzialità economiche isolane.
ReportageSicilia ripropone in questo post alcune immagini di quei villaggi, opera di Eugenio Bronzetti ( fotografo palermitano oggetto di un altro recente post ), in origine pubblicati a corredo del citato articolo di Carlo Emilio Gadda.
La metafisica e funzionale architettura di quei manufatti stride con il loro aspetto odierno; quasi uno specchio dell’irrazionale spinta dei siciliani a deprimere ogni progetto di razionale ed organizzato sviluppo: un lusso ai nostri giorni non più tollerabile.

Fra gli edifici a servizio del Borgo Bonsignore vi era anche questa trattoria.
Il funzionalismo che stava alla base
della ideazione di questi villaggi, fallì il suo intento perchè la filosofia della loro progettazione si scontrò con il mancato superamento nell'isola della realtà del latifondo



venerdì 8 giugno 2012

LA SICILIA DALL'ALTO DI FOLCO QUILICI

Particolare del carretto fotografato a Cefalù da Folco Quilici, durante la lavorazione del documentario dedicato alla Sicilia e che fece parte della collana "L'Italia vista dal cielo".
L'opera, commissionata da Esso Italiana, portò Quilici nell'isola nel 1970.
Da quel film, sette anni più tardi, sarebbe nato un volume ricco di notazioni sul lavoro di documentazione
svolto in Sicilia
“Fu in una di quelle strade dove camminavamo all’ombra stanchi dopo il lungo volo, e si andava alla ricerca d’una osteria dove bere qualcosa di fresco, che incontrammo quel carretto che del folklore siciliano resta il simbolo più vieto e banale; dipinto per stupire i turisti, non più in uso se non per esibizioni folkloristiche di dubbia autenticità, facile preda degli scatti frenetici delle macchine fotografiche dei turisti d’oltre Oceano e d’oltralpe.
Ma “quel” carretto di Cefalù era vero; le immagini dipinte sulle fiancate erano quasi stinte, il suo carico erano poveri sacchi ripieni di ghiaia e di sabbia che quelle ruote, anch’esse dipinte e stinte, cigolando portavano verso un non lontano cantiere; chiesi all’uomo che camminava accanto al carretto di arrestarsi un istante ed in quel momento conclusi il mio lavoro in Sicilia.
Scattai una foto attraverso i raggi della ruota, un’immagine scolpita e dipinta ove si riflettevano i colori delle terre, delle case, delle rocce, del mare, dei campi e degli uomini incontrati nel nostro lungo volo e nelle nostre soste a terra attraverso la Sicilia”.
Folco Quilici, scrittore, giornalista ed autore di opere cinematografiche e documentarie legate soprattutto al mare, così concluse il reportage siciliano che fece parte della serie “L’Italia vista dal cielo”.


Tratto da YouTube, il documentario "Sicilia" realizzato nel 1970 da Folco Quilici per conto di Esso Italiana 

L’opera venne commissionata nel 1966 da Esso Italiana e nacque come una documentazione delle regioni dall’alto di un elicottero, con un commento affidato – per l’isola - alla penna di Leonardo Sciascia: in tutto, furono 14 i film documentari realizzati da Quilici tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo.
Quella produzione sarebbe stata trasmessa dalla Rai, dal 1978 al 1980; in tempi recenti, è stata riproposta da Rai Storia a partire da dicembre del 2010.
L’incontro fra l’autore ferrarese e l’ultimo carretto siciliano a Cefalù è narrato nel volume che anni dopo avrebbe raccolto le impressioni di Quilici su quel volo sopra la Sicilia ed il suo mare.
Il libro – che porta semplicemente il titolo ‘Sicilia’ e che venne edito da Esso Italiana nel 1977 – offriva al lettore una prefazione ancora di Leonardo Sciascia, tratta dall’introduzione del libro “La corda pazza”.
Fra le tante fotografie presenti in quel volume, ReportageSicilia propone l’immagine che Quilici realizzò a Cefalù; compresa quella – ovviamente – del carretto siciliano, così lontana da quella visione folkloristica così giustamente avversata dallo scrittore e quasi introspettiva su tradizioni e strumenti di civilità dilaniati già allora dalla cultura del ‘tipico’.

Cefalù dall'alto, particolare della fotografia realizzata
da Folco Quilici nel 1970
e pubblicata nel volume edito sette anni dopo da Esso Italiana

martedì 5 giugno 2012

I "TRIUNFI" DEI SANTI DI SICILIA

Immagine del "triunfu" in onore di Sant'Antonio a Porticello - in provincia di Palermo - nel giugno del 1979.
Simili manifestazioni di devozione popolare - nate come feste di ringraziamento per la concessione di una grazia - nacquero nel secolo XVIII; vi partecipavano musicisti ( "triumfisti" ) il cui ruolo era quello di recitare musicalmente la storia ed i miracoli del santo

ReportageSicilia riceve da Paolo Di Salvo questo post.
A Lui va il nostro ringraziamento anche per la documentazione fotografica tratta dal Suo archivio personale, relativa al "triunfu" in onore di Sant'Antonio a Porticello, nel 1979.

Nel saggio "Feste religiose in Sicilia" (1965), che accompagna una straordinaria raccolta di fotografie di Ferdinando Scianna, Leonardo Sciascia ragiona sulla religiosità del popolo siciliano che egli considera totalmente refrattario a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione metafisica.
Questo particolare modo di intendere e professare la religione si riflette anche nel rapporto con i santi che viene vissuto alla stregua di un normale rapporto sociale e umano.

La composizione dei "triunfisti" era rappresentata di solito da almeno tre musicisti: violino, chitarra e mandolino, cui, di caso per caso, potevano aggiungersi suonatori di altri strumenti a percussione od a fiato
In Sicilia è infatti frequente trovare, accanto a celebrazioni rispettose delle prescrizioni liturgiche, altre manifestazioni celebrative che, invece, da tali canoni si allontanano.
Tra le celebrazioni devozionali, i “triunfi” e le novene, occasioni fortemente avvertite dal popolo, in passato venivano diffuse dai “ninnariddari” e dai cantastorie ciechi.
Gli “Orbi” erano suonatori e cantori ciechi originariamente riuniti in una Confraternita fondata a Palermo nell'anno 1655, sotto il titolo dell'Immacolata Concezione, da Padre Francesco Drago della Compagnia di Gesù.

L'obiettivo di Di Salvo fissa a Porticello il violinista Salvatore Rizzo ed il chitarrista Giovanni Pennisi, due dei più famosi "triumfisti" isolani.
Il loro era un ruolo che andava oltre quello di semplici musicisti di ispirazione religiosa: le loro recitazioni sonore in onore dei santi costituivano infatti un momento di solida aggregazione popolare  
Essi avevano il compito, dettato dalla Chiesa, di diffondere presso il popolo testi con argomento di carattere religioso allo scopo di addottrinare le persone attraverso il canto con storie di santi, canti della Natività e della Passione.
Il “triunfu”, la cui tradizione ebbe inizio probabilmente nel XVIII secolo, era una festa di ringraziamento indetta in onore di un santo da parte di chi aveva ricevuto una grazia.

Le offerte dei devoti, altro momento cruciale del "triunfu" in onore dei santi.
Anche le offerte di denaro finivano col diventare un atto di partecipazione e di identificazione extrareligiosa
nelle vicende di una più vasta collettività, in questo caso quella di Porticello.
Lo scatto di Di Salvo coglie anche un giovanissimo Giuseppe Tornatore impegnato nella realizzazione di un documentario
In questa circostanza, davanti ad un’edicola o ad un altarino - riccamente addobbato con fiori, piante e frutta, su cui era disposta l'immagine sacra, un gruppo di suonatori chiamati dal devoto narrava - con una recitazione musicata, la storia e i miracoli del santo.
Solitamente i “triunfisti” formavano una piccola compagnia di almeno tre elementi: violino, chitarra e mandolino. Tra gli ultimi “triumfisti” palermitani vengono ricordati particolarmente Rosario Salerno ( "Zu Rusulinu", suonatore di violino), Angelo Cangelosi (suonatore di chitarra), Fortunato Giordano (suonatore di chitarra e cantastorie cieco), Salvatore Rizzo (suonatore di violino) e Giovanni Pennisi (suonatore di chitarra).

Poteva capitare che ai "triumfisti" di consolidata pratica si unissero altri musicisti locali, magari provenienti dalle bande municipali. In questo caso, sulla scena del "triunfu" in onore di S.Antonio irrompe una moto Ape
carica di bandisti: straordinaria immagine in cui l'obiettivo di Paolo Di Salvo restituisce la vitalità e l'ironia di quei momenti
Il “triunfu” si apriva con un allegro brano musicale dal ritmo sostenuto, cui seguiva il racconto della storia del Santo, interrotta da alcune brevi pause durante le quali i fedeli offrivano ai “triunfisti” da bere e cibi tradizionali.
Fra un "miracolo" e l'altro si intrecciavano alla storia vari intermezzi musicali.
Il “triunfu” si concludeva ritualmente con la Litania della Vergine, l'”Abballu di li virgini” e una o più “sunati a cumplimentu”.

Ironia, orgoglio, senso di appartenenza ad un rito collettivo: sono solo alcuni degli stati d'animo che possono leggersi nei volti
 di questi musicisti senza nome
L’”Abballu di li virgini” è un canto in cui si descrive una grande festa da ballo indetta in cielo «’nnanzi a Diu Patri e Signuri». Insieme a Maria, danzano le vergini che vengono nominate, in una lunghissima filastrocca, man mano che si avviano alla danza e alla fine del canto.
La cerimonia più frequentemente celebrata era in onore di Santa Rosalia patrona di Palermo, ma c'erano “triunfi” per ognuno dei santi più venerati in ambito popolare.
A Porticello, nella ricorrenza del Santo, i devoti di Sant’Antonio di Padova apparecchiavano numerosi altarini davanti ai quali venivano cantati i “triunfi”.

La performance sonora dinanzi un altarino con l'immagine di un Bambinello, in onore del quale - racconta Di Salvo - il gruppo intonò il motivo
 "mi scappa la pipì papà"
Oggi i “triunfi”, a parte quello di Santa Rosalia puntualmente riproposto per il Festino, non vengono più eseguiti in contesti di celebrazioni devote, ma prevalentemente in occasione di concerti o rassegne di musica tradizionale.
Sempre a Porticello, nel giugno del 1979, in occasione delle celebrazioni in onore di S. Antonio, ho avuto la fortuna di ascoltare e fotografare Giovanni Pennisi e Salvatore Rizzo che, già all’epoca, erano rimasti tra gli ultimi eredi della tradizione dei triunfi.

Un'altro momento del "triunfu" in onore di Sant'Antonio a Porticello:
anche questa immagine
di Paolo Di Salvo evidenzia il carattere socializzante rappresentato dall'evento di natura devozionale 
In quella stessa circostanza partecipavano alle celebrazioni anche ensemble non proprio nei canoni della tradizione. Tra questi, una piccola banda alloggiata su un motocarro si spostava da un altarino all’altro suonando le più svariate musiche: ricordo che, dopo diverse bevute, il gruppo eseguì in onore del Santo (che d’altro canto regge in braccio il Bambinello) il motivo “mi scappa la pipì papà”.
testo e fotografie di Paolo Di Salvo

Edicola devozionale in onore di Sant'Antonio ed altarino dedicato alla Madonna sull'uscio di un'abitazione.
L'addobbo floreale regala armonia e giusto senso del decoro alla giornata di festa a Porticello